Protagonisti
Studio Aisslinger

Per Werner Aisslinger e Tina Bunyaprasit il compito del design non è dotare uno spazio di uno stile o di un aspetto uniforme, ma mixare materiali, suggestioni e idee dalle fonti più disparate per dar vita a un collage che sia anche narrazione e storytelling

“Il designer è come un deejay”. Il motto è di Werner Aisslinger e Tina Bunyaprasit, i fondatori dello Studio Aisslinger, realtà nata a Berlino nel 1993, che dal 2008 ha una sede anche a Singapore. Potrebbe apparire uno slogan azzardato, ma analizzando i lavori di interior design firmati dai due per aziende, catene alberghiere e negozi, il significato dell’affermazione diventa chiaro: alla base c’è la convinzione che compito del design non sia dotare uno spazio di uno stile o di un aspetto uniforme, ma, semmai, di mixare materiali, suggestioni e idee dalle fonti più disparate, campionando il tutto, ossia trasformando o attualizzando gli elementi selezionati per dar vita a un collage che sia anche narrazione, storytelling.

“Da tempo le nostre vite si svolgono sempre più online, basti pensare a quanto è cresciuto l’e-commerce negli ultimi anni. La conseguenza è che l’interesse nei confronti dei luoghi fisici si è ridotto: per far sì che le persone si affezionino a uno store, a un locale o a un hotel serve raccontare qualcosa”, osserva Aisslinger, classe 1964, in tasca i premi più prestigiosi, dal Compasso d’Oro al Red Dot Award.

Il 25hours Hotel The Circle di Colonia è esemplare in tal senso: in quel caso vi siete ispirati a un libro del 2013, “The Circle” dell’americano Dave Eggers, scelta particolare trattandosi di un romanzo di fantascienza distopico.

Quel libro mostra come certe visioni possano tramutarsi in distopie. Noi siamo partiti dall’epoca dell’edificio in cui dovevamo intervenire: la fine degli anni Cinquanta, vale a dire il secondo dopoguerra, periodo che per la Germania e altri paesi europei fu sinonimo di ricostruzione. Allora la tecnologia era elogiata, si sognava di andare a vivere sulla luna: quel punto di vista ingenuo sul futuro, lo spazio e l’utopia sono diventati il fulcro del nostro racconto. Ma attenzione: la traduzione di uno storytelling in design e interni non è mai didascalica o decorativa, non è mai “disneyfication”; al contrario, si fonda su riferimenti sottili e citazioni nascoste all’interno del progetto.

La lobby dell’albergo evoca una piazza con bar e boutique: anche la multifunzionalità è ormai imprescindibile nel design?

Quella hall è sotto tutela storica, era parte di una compagnia di assicurazioni con sportelli disposti a cerchio che abbiamo utilizzato per vari scopi, tra cui un negozio di dischi, uno spazio-officina per la riparazione di biciclette, una galleria d’arte, un’area coworking. Più che di multifunzionalità, in quel frangente si trattava di dare una nuova vita all’ambiente in ogni sua parte.

Nel 2020 avete progettato gli uffici aziendali di Loqi a Berlino e Jägermeister a Wolfenbüttel. Considerato l’impatto della pandemia, quali sono le nuove tendenze in quel settore?

Siamo in una fase di riorientamento molto intensa, con alcune questioni nuove di cui tener conto. Intanto c’è l’esigenza di confrontarsi con il cosiddetto “six feet office”, ufficio disegnato in modo da mantenere i lavoratori a distanza e dare loro postazioni con igienizzanti e per lavarsi le mani. Si stanno, inoltre, ripensando la circolazione negli uffici e l’uso di ascensori e scale monodirezionali. In più, dato che a fine pandemia l’ufficio intelligente sarà quello che offrirà più opzioni di utilizzo per meno persone, perché molte resteranno in smart working, da Loqi e Jägermeister abbiamo mescolato in modo giocoso aree dove lavorare in piccoli gruppi, complete di tavoli alti o divani, e work-capsule per sessioni di lavoro private dal sapore futuristico: un’ambientazione cinematografica che stimola la fantasia e dà al lavoratore l’idea di entrare in un mondo diverso, da sogno, allontanandolo dal rumore, dai colleghi al telefono e aiutandolo a resettare la mente.

Tutto questo vale anche per gli spazi di coworking come Headsquarter, a Zurigo, che avete progettato di recente?

Il coworking su grandi tavoli comuni tornerà solo nel post-pandemia, motivo per cui Headsquarter si presenta come un mix di stanze con pareti in vetro da affittare e aree collettive dal design inaspettato, scenografiche, che rimandano a certe ambientazioni da film anni Sessanta.

Tornando a hotel e affini, su quali forme di ospitalità si punterà in futuro?

La staycation è un trend in crescita: dopo la pandemia i viaggi d’affari brevi diminuiranno, le persone cercheranno sempre più spazi per soggiorni lunghi, a metà tra vacanza e lavoro. Il che significa che le stanze d’albergo del futuro dovranno avere scrivanie comode e angoli cottura.

In alternativa c’è l’architettura nomade, concetto a voi caro, che nutre il design di Loftcube e Fincube.

Sì, Loftcube è una micro-architettura pensata come innovativo spazio comunitario e di condivisione, collocabile sul tetto di grandi edifici urbani. Mentre Fincube è un’unità abitativa temporanea, in legno, messa a punto con il signor Innerhofer, albergatore altoatesino, proprietario del Pergola Residence di Lagundo progettato da Matteo Thun. Si tratta di un piccolo chalet sostenibile, non permanente, che può essere posizionato in località di montagna senza dover isolare il terreno. Si integra con la natura e non intacca il paesaggio, che può tornare com’era una volta spostato il Fincube altrove.

A proposito di sostenibilità, quanto conta?

Da diversi anni tantissimo, è un fattore estremamente importante. È la ragione per cui per alcuni prodotti come i tappeti usiamo solo materiali “cradle to cradle”, in un’ottica di economia circolare e di eco-compatibilità. E per i terrazzi, per esempio, ci rivolgiamo a produttori di pietre e legno locali. L’approvvigionamento sul territorio in cui si progetta è fondamentale per ridurre le emissioni di CO2 e l’impronta ecologica. 

Quando affrontate un progetto, come costruite la tavolozza dei colori?

I criteri sono vari: pensiamo al marchio che siamo chiamati a rappresentare con quel determinato progetto, al paesaggio in cui si inserisce, prestiamo attenzione alla luce del sole, a come si muove l’ombra. Il fine è sempre trovare una combinazione di colori che sia anche collegata al Paese di riferimento, una palette che sia giusta per la Svezia o per il Marocco e così via. 

Perché vi definite designer-dj?

Perché nel nostro studio abbiamo un enorme laboratorio con un’ampia gamma di materiali con cui amiamo giocare. Ma preciserei che per noi il designer-dj non è la persona che progetta i dettagli, è più un curatore che guarda gli spazi da una prospettiva olistica e mescola materiali ed elementi in modo insolito e personale.