Protagonisti
Vittorio Grassi VGA

C’è una eccezionale sedimentazione estetica e culturale nei progetti di Vittorio Grassi. Ma anche una non comune capacità di reimmaginare il contesto urbano e i suoi segni identitari. Declinati secondo un linguaggio da cui traspare tutta la ricchezza della scuola progettuale italiana

Dall’office al residenziale, passando per l’hospitality e i masterplan. Con un linguaggio capace di coniugare creatività e qualità del progetto. La nostra conversazione con Vittorio Grassi ci porta alla scoperta di una dimensione in cui la grande tradizione italiana dell’architettura e dell’interior design non sono solamente uno straordinario dato culturale, ma anche un brand esportabile a livello internazionale.

Il suo studio firma interventi molto diversificati per tipologia e impronta progettuale. Da dove nasce questa multidisciplinarietà?

Innanzitutto dalla mia formazione. Ho frequentato il Politecnico di Milano in anni di grande fioritura per la cultura del progetto, e a questo ho aggiunto una mia particolare inclinazione verso gli aspetti più tecnologici dell’architettura e l’esplorazione delle diverse scale del progetto. Per tradursi in atto tutto questo ha naturalmente comportato una adeguata strutturazione dello studio, che oggi è composto da architetti, urbanisti e interior designer. Questo ci permette di seguire l’intero sviluppo dei nostri progetti, dal concept alla costruzione, e un ventaglio di attività molto vasto sia in Italia che all’estero, soprattutto nelle aree del Nord Africa e del Medio Oriente.

E nel nostro paese?

Il baricentro delle nostre attività sono soprattutto i centri urbani, un ambito in cui il tema progettuale prevalente è quello del recupero e della rigenerazione e che propone un livello di difficoltà particolarmente alto in quanto la progettazione qui si misura con un tessuto consolidato e con tutti i suoi vincoli. In questo quadro, se Milano rappresenta una sorta di avanguardia, è altrettanto vero che anche realtà di scala minore come Genova e Torino mostrano grande vivacità e stanno attirando molti investitori stranieri, un segno di fiducia nel brand Italia e nelle sue potenzialità. Ancor più interessante è il fatto che questa dinamica si stia sviluppando all’insegna di un costruito di qualità – urbana, energetica, ambientale – in tutti gli ambiti tipologici, dal residenziale all’office. Gli esempi nel nostro portfolio sono numerosi, dalle riqualificazioni della ex sede del Consolato americano di via Principe Amedeo a Milano e della Antica Cà Litta, sempre a Milano – due interventi che rispettando l’edificio storico combinano la qualità degli ambienti esistenti con la versatilità degli interni contemporanei – ai grandi interventi di rigenerazione urbana, come il recente progetto di 720 nuove residenze nella città militare della Cecchignola a Roma. Una sorta di social-affordable housing inserito all’interno di un masterplan che prevede la realizzazione di un vero e proprio nuovo quartiere.

La contestualizzazione dell’intervento alla scala urbana è un tema ricorrente nel suo lavoro…

Senza dubbio, e come dicevo è in parte frutto di una vocazione personale, in parte della mia storia professionale. Ho speso una parte importante della mia carriera in Francia e Inghilterra e lavorato per dieci anni con Renzo Piano su interventi di grande complessità, in cui articolazione e organizzazione del tessuto urbano hanno un ruolo decisivo negli esiti del progetto. Un’attitudine che oggi, nell’attività dello studio, si esplica con grande libertà compositiva, soprattutto nei contesti internazionali dove è ancora possibile plasmare il territorio, anche esportando modelli di derivazione europea.

Operazioni interessanti, ma che richiedono una committenza sensibile…

Certamente, ma devo dire che la cultura estetica e progettuale italiana esercita un grande fascino. Sia nei confronti di chi la conosce, avendo studiato o viaggiato all’estero, sia di chi la scopre per la prima volta e ne apprezza sensibilità formale e capacità di leggere il territorio e il contesto culturale. Anche nei luoghi più impensabili. Tra i molti esempi mi piace citare la realizzazione di un centro culturale a Yakutsk, in Siberia, che abbiamo sviluppato riprendendo elementi della storia e della cultura locale con eccellenti risultati. Altri contesti, soprattutto in realtà mediorientali come gli Emirati, tendono magari a privilegiare gli aspetti tecnologici, ma sempre all’interno di un involucro capace di dialogare con il territorio.

In termini di approccio alla gestione del processo progettuale, invece, si sta colmando il gap rispetto a realtà più avanzate sotto questo aspetto come quelle nordeuropee?

Solo in parte. Rispetto a noi il nord Europa e il mondo anglosassone sono molto più orientati alla specializzazione, un’inclinazione che parte sin dalla fase della formazione universitaria e che rende anche il giovane professionista in grado di affrontare fin da subito tutte le complessità proprie della gestione di un progetto. A questo si aggiunge poi la forte impronta manageriale e imprenditoriale tipica dei grandi studi internazionali, che coniugano gli aspetti creativi con un’impostazione business-oriented che a noi manca. Del resto, è un approccio rispecchiato anche dal tessuto industriale, che se nelle realtà internazionali più evolute privilegia la grande scala da noi è ancora oggi composto da realtà di medie dimensioni e di impronta sostanzialmente artigianale. Una debolezza che però è anche un punto di forza.

In cosa siamo migliori, quindi?

Abbiamo stile, gusto, cultura, frutti di una tradizione umanistica che si riflette nel linguaggio e nell’estetica. Il design made in Italy, sia di prodotto che degli interni, ha una qualità superiore di diversi ordini di grandezza rispetto a qualsiasi altro concorrente. E questo anche grazie alla citata tradizione artigiana, che saldandosi con i processi produttivi dei brand nazionali più prestigiosi è capace di garantire una qualità realizzativa e un livello di personalizzazione che non hanno eguali al mondo. Un punto di forza enorme, che purtroppo rimane ancora non sufficientemente esportabile anche in un mercato dai numeri interessanti come il contract.

Per quale motivo?

Paradossalmente proprio per un discorso innanzitutto di volumi. Interventi di grande scala richiedono numeri che molte aziende italiane non sono in grado o non hanno intenzione di gestire, in parte anche per la volontà di mantenere un livello qualitativo di eccellenza e una certa esclusività. Intendiamoci, non mancano esempi di successo, ma non possiamo parlare ancora di una dinamica di sistema. Tant’è che l’elemento trainante del mondo contract sono ancora principalmente le prescrizioni del progettista, più che un’azione commerciale sistematica da parte delle aziende.

Anche all’estero?

Soprattutto. Ogni paese ha le sue peculiarità culturali, organizzative, normative, ed è quindi indispensabile lavorare con referenti in grado di introdurti nel mercato locale. A questo aggiungiamo il fatto che il livello qualitativo del nostro interior design richiede anche una cura esecutiva difficilmente riproducibile in loco. E che è invece importantissima. I brand italiani più evoluti sono comunque in grado non solo di gestire le tempistiche di fornitura e le mille personalizzazioni che spesso il mercato estero richiede, ma anche di supportare la messa in opera e l’altrettanto importante fase di gestione e manutenzione.

Chiudiamo con uno sguardo ai vostri prossimi progetti?

Stiamo curando a Milano la riqualificazione di un edificio per uffici risalente agli anni ’70, un tipico esempio di edilizia diffusa che di per sé non ha grande valore ma è parte del tessuto connettivo del quartiere e rappresenta un’interessante occasione per un recupero “intelligente” e di qualità, attento all’involucro ma anche alle performance funzionali ed energetiche. L’obiettivo è farne una dimostrazione di come, anche con un budget vincolato, sia possibile coniugare un’efficace comunicazione della brand identity con spazi di qualità, senza sacrificare nessuno dei due aspetti.